Dimenticata dalla guerra, Roma torna protagonista nel 1943-’44, suo malgrado: il 19 luglio ’43 furono le bombe sulla città, 25 luglio la caduta del fascismo, 9 settembre la vana difesa dai tedeschi, ed il 4 giugno ’44 la liberazione. L’occupazione tedesca, dal settembre ’43 al giugno ’44, è dura e umiliante. Sono mesi di angoscia. Gli sciacalli del mercato nero imperversano e per sfamare i bambini si vendono gli ultimi ricordi di famiglia. La fame è il denominatore comune. Cento grammi di pane al giorno, razionato il gas, due ore di luce elettrica dopo il tramonto, qualche stufa ma con poca legna. La città è allo stremo. Negli alberghi di via Veneto c’è chi passa le lunghe ore del coprifuoco a giocare a poker e a bere whisky. Sono gli amici dei tedeschi: molti di loro pagheranno caro quel momento di euforia. Al sud d’Italia, re Vittorio Emanuele e Badoglio guidano il piccolo regno del Sud, in attesa della rivincita. Gli americani danno una robusta mano, rovesciando tonnellate di viveri e avanzando verso nord. Lentamente, smentendo le cassadre, il regno di organizza, costituisce un piccolo esercito, tappa le falle più profonde, sopravvive. Finché il 4 giugno ’44, una azzurra domenica della tarda primavera mediterranea, gli americani entrano a Roma liberatori, con i fiori piantati nelle bocche dei fucili. Vittorio Emanuele nomina il figlio Umberto reggente e, tardivamente, si ritira dietro le quinte. Gli americani vogliono facce nuove: anche Badoglio passa nel regno degli ex. Al suo posto Ivanoe Bomoni, un civile: ormai è cambiato il vento.
Il maresciallo Kesselring, come promesso, risparmia la città eterna. Il 4 le retroguardie tedesche lasciano Roma: niente esplosioni, niente distruzioni di massa. Gli americani si rovesciano da est e da sud sui sobborghi romani. Le prime colonne, esauste, si inoltrano in città, garofani e sigarette infilati nelle reti degli elmetti. I “GI.” fanno la ruota, come i pavoni. Roma, simbolo splendido dei valori di civiltà per cui hanno combattuto, è il loro legittimo trofeo. I romani invadono le strade, applaudono, ridono, gridano, piangono di gioia: “E’ finita, è finita”. Una città sembra impazzita: è la liberazione dopo tanta sofferenza. Le campane suonano a festa e lunedì 5 giugno centomila romani si riversano in piazza San Pietro per la benedizione del Papa. Il comandante americano, il generale Clark, entrato in città trionfante sulla sua jeep, parla ai giornalisti: “Questo è un grande giorno per la V armata”. E’ un uomo coraggioso ma vanitoso e mondano. Poco dopo, in un salotto nobiliare, un’anziana signora patrizia si rivolge al generale: “Forse lei non sa di essere il secondo barbaro che prende Roma dal sud. Il primo fu Belisario”. Un momento di imbarazzo, poi una grande risata liberatoria.
Fuori il popolo romano impazza. Le jeep Willis fanno carosello e le ragazze mostrano il sorriso migliore. Sembra il carnevale dei Papi. Lontano tuona il cannone: sono i tedeschi in ritirata. Il comandante delle SS, Karl Wolff, è già lontano. Ha sedotto molti cuori femminili: quando si rende conto che non lo rivedrà mai più, una contessa romana si taglia le vene. Il vecchio padrone fugge, è arrivato il nuovo. La Military Police e le “segnorine” si preparano a fare la ronda, i ragazzi a lustrare le scarpe. Cambia il padrone, questo ha la mano più leggera, ma non cambia Roma.