Editoriale di P. Stefano Tollu – Indagini condotte in vari paesi europei rivelano che circa il 65% delle persone intervistate manifestano come prova più difficile da sopportare la solitudine. In Italia telefono amico afferma che il 20% dei contatti manifestava il desiderio di compagnia, portando le problematiche riguardanti l’area del sé al 69% del totale, altre statistiche parlano di 4 milioni di italiani e il 20% della popolazione mondiale del Primo mondo a vivere la realtà della solitudine.
La solitudine, si manifesta quindi come una problematica, un disagio, un dolore grave nella nostra società. Perché? La solitudine viene vista e vissuta come la più opprimente delle povertà. Ha la capacità di distruggere il cuore e lo spirito, come un virus verso il quale non abbiamo più anticorpi per lottare contro il senso di vuoto che ci divora. La persona sola si sente scacciata, non capita, emarginata dagli altri, ma soprattutto da se stessa, con delle dinamiche che gli fanno apparire impossibile l’essere raggiunto ed aiutato da altri.
La solitudine è uno dei più dolorosi aspetti della nostra iperconnessa società, aperta alla connessione totale, insabbiando poi gli individui nel dolore dell’essere solo, un non senso allucinante, ma purtroppo reale vissuto dinanzi a pranzi o cene solitarie accompagnati da un pc o una tv. La parola solitudine può però, diventare ambigua, ci sono infatti più tipi di solitudine:
La solitudine cattiva e aggressiva figlia del mutismo e dell’isolamento.
La solitudine feconda, figlia dell’accettazione e dell’accoglienza.
Cerchiamo di riflettere su varie formi di solitudini negative, per prima quella che ci è imposta dallo stile di vita del mondo odierno, in maniera particolare nelle grandi città, ma non solo. Le grandi città riuniscono immense o grandi quantità di persone, dove dovrebbe essere sviluppato il concetto sociale di comunità, ma invece vi troviamo realtà di parallele vite in isolate cellule, come convogli della metro, in perfetto isolamento e anonimato. Alla maniera della metro che rasenta i muri delle gallerie, spesso le persone rasentano la vita di altre persone. Possiamo “rasentare” il nostro vicino, collega, per anni senza mai identificarlo ne identificarci, senza mai oltrepassare un frettoloso buongiorno, o uno sguardo sfuggente. Possiamo addirittura morire senza che lo si sappia e senza che nessuno se ne preoccupi, proteggendo così con l’iperconnettività che mi permette di chattare con uno/a sconosciuto/a in Islanda la solitudine sociale del mio vicino di casa, residente a 5 metri da me dall’altra parte della strada per 30 anni. Se analizziamo con sincerità la nostra società scopriamo che il vicino, il collega è raramente il prossimo. Il lavoro non sfugge a questa terribile realtà, in maniera speciale nelle grandi aziende con tutti i loro uffici e le loro macchine, non sfugge a questa dimensione la realtà militare… A furia di vivere con le macchine si corre il rischio di trattare tutto e tutti come se fossero macchine arrivando ad atrofizzare l’abilità all’incontro umano. Il concetto sempre più esasperato di privacy può, nella sua esasperazione, creare un’indifferenza che finisce poi con il generare la rinuncia e in seguito l’isolamento il quale può diventare abbruttimento e aggressività nell’individuo.
Una seconda forma di solitudine subita è quella che nasce dalla mancanza di comprensione da parte di chi ci è vicino: genitori, amici, compagni di lavoro. Questa altra realtà di manifesta e si avverte come più dolorosa, tanto quanto più ci è vicina la persona sulla quale, normalmente dovremmo poter contare. Questa tragica solitudine la si incontra nelle famiglie: sposi che vivono fianco a fianco ma chiusi l’uno all’altro; coppie in disarmonia o in conflitto (aperto o nascosto) o con “alternativa”, quindi in attesa di mollare il partner in avventure occasionali, creando poi la solitudine vista come monoparentale dei figli, il quale in alcuni momenti non sanno più a chi appartenere vivendo anche loro la tragedia della solitudine nell’adolescenza o nella giovinezza, la quale, è per l’età in cui è vissuta sempre più violenta e aggressiva, ma con meno strumenti per difendersi. Questo tipo di solitudine la si trova anche tra le diverse classi della società (mi vengono in mente alcuni rigurgiti violenti contro gli immigrati, altre volte contro alcune classi viste come privilegiate così come alcune realtà legate al lavoro o al governo), si manifesta ancora tra le diverse generazioni: il dramma dell’incomprensione tra genitori e figli (genitori che si sentono sprovveduti, incapaci, snaturati se vogliamo; figli che escono sbattendo la porta di casa andando incontro a “gruppi clandestini” ancor più pericolosi poiché alimentati della grande disoccupazione giovanile: droghe, gioco, disadattati sociali che formano il “branco”… pensiamo ai tanti branchi giovanili che stuprano (16-17 anni spesso) o picchiano (bande criminali latine, o gruppi di politiche estreme).
Una terza forma di solitudine subita, involontaria, ma non per questo meno dolorosa, lacerante è quella del rifiuto, dell’abbandono! Chiunque l’abbia provata non desidera neanche più ricordarla, in quanto dà un dolore che può essere compreso solo in un concetto di disintegrante dolore dell’essere. Esperienza questa vissuta anche da giovani sacerdoti inviati a lavorare in ambienti spesso scristianizzati della nostra bella Italia e con “una non ancora schiena pronta” a portare carichi pesanti. È la realtà dei profughi e dei migranti, che partono con speranza e sogni per il futuro e che vengono spesso rigettati con diffidenza figlia del pregiudizio, o ai più fortunati con il giudizio che li accompagnerà con il nome “lo straniero”, tale dinamica l’ho conosciuta per esperienza anche in altri continenti, fra stessi africani, fra indiani… poi abbiamo la categoria della terza o quarta età, una realtà normale nel nostro bell’occidente. Mi è capitato di parlare con persone anziane che spesso si definiscono morti a cui è concessa una proroga! Passano la maggior parte del tempo da soli, su un letto magari davanti alla tv, oppure seduti alla finestra contemplando un mondo che va per conto suo, in quanto tale mondo non li ritiene più utili se non quando ci sono le elezioni o si arriva a fine mese per riscuotere la pensione.
Mi sono accorto di aver scritto tanto, forse troppo, chissà se dei pochi che hanno aperto la mail, quanti sono ancora lì a leggere? Cerco ci concludere la riflessione. Le solitudini di cui sopra sono tutte solitudini che sono inacidite anziché maturate. Gli è mancato il sole dell’attenzione, della comprensione, della solidarietà, del guardare negli occhi, della gratuità. Sicuramente gli è mancato il sole di Cristo spesso non donato dai cristiani… e di questo non posso che chiedere perdono. Nel mondo tutti incorriamo prima o poi in qualche sconfitta ma se non la superiamo e non l’accettiamo, corriamo il rischio di inaridirci e inacidirci. Quando questo avviene siamo amari, aggressivi, astiosi. Ci sentiamo incompresi e diventiamo “mal-amanti”, ci sentiamo disprezzati che reagiscono con il disprezzo. In questo mondo basato sul successo, dinanzi alle sconfitte possiamo isolarci guardando a tutto e tutti con sguardi disillusi e cinici, perdendo la fecondità della vita e diventando sterili osservatori, incapaci di tornare ad essere protagonisti, e lì la tragedia della solitudine subita ha buon gioco.
Capiamoci, la solitudine non conosce ambienti protetti, non gli interessano le classi sociali, il PIl o la qualità della vita, attacca ovunque, e spesso nei paesi del terzo e quarto mondo è decisamente ridotta… credo che Cristo e gli atteggiamenti che ci chiede di vivere, siano una salutare risposta per trasformale la solitudine da subita ad accettata e vissuta. Le opere di misericordia sono un grande aiuto: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti. Ed ancora trovo una medicina valida alla solitudine subita le chiamate opere di misericordia corporali: dar da mangiare agli affamati (oggi penso agli affamati di compagnia, di affetto), dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti (andare quindi al funerale del vicino!).
Dopa tante chiacchere ‘sto prete se ne esce con le cure della nonna???? Si. I nostri nonni non soffrivano di solitudine, non andavano in terapia, non erano egoisti ma si solidali. Perché la modernità non può essere alimentata dalla tradizione. Perché si pensa che il vuoto esistenziale possa essere solo colmato con la “terapia”? Cristo ha conosciuto nel Getsamani l’abisso della solitudine, incompreso dai suoi stessi apostoli da solo va alla croce, aiutato, perché obbligato, dal solo samaritano. Gesù sempre mi mostra un cammino positivo dove al silenzio dell’uomo risponde con la sua presenza vera e carnale, vera perché lui c’è sempre e ci ha insegnato a chiamare Dio con la parola “Papà”, carnale perché come cristiani siamo chiamati ad avere i suoi atteggiamenti andando incontro al prossimo che mi è sempre fratello, al di là della sua classe sociale o storia, o colore.
Un atteggiamento cristiano, insegna a vivere la solitudine figlia della storia ad un livello diverso, dove questa è accettata diventando feconda poiché aperta. La soluzione della nonna che presento porta ad uscire dall’isolamento, dal disgusto della vita, dall’arrendersi, chiede di uscire da se stessi ed andare fuori da se stessi. Penso a persone che ho conosciuto, a mia nonna Italia morta tanti anni fa, dopo anni di vedovanza: una donna sola che scelse di vivere da sola ma con occhi pieni di gioia, di serenità nella sua solitudine che era fisica e non spirituale. Una persona che dalla vita ricevette prove durissime senza però perdere la freschezza dell’anima, la capacità co comprendere, compatire, ascoltare… amare! Spesso dimenticava se stessa, ma mai le persone che le erano vicine, colmandomi e colmandoci del suo inesauribile sorriso, colmo di dolcezza, bontà, illuminato dall’interno dalla Luce del Cristo che pregava senza saper né leggere né scrivere .
Lottiamo contro la solitudine, lottiamo contro di essa partendo da noi, dove ci troviamo qui e ora: nel lavoro che no può essere solo luogo dove passare 8 ore in attesa di andar fuori, a casa che deve essere luogo di accoglienza e scuola di vita, nel tempo libero che mai deve slegarsi della nota dello stare insieme e non qualificarsi solo nel luogo dove trovo i miei piaceri.
Spero che siate arrivati sino a qui, dove vi saluto, vi abbraccio e vi benedico.
Pe. Stefano.