Avezzano. Come oggi, la Marsica e l’Abruzzo fu segnata da una catastrofe i cui segni resteranno indelebili nella storia, e nella vita di questa città. Il capoluogo marsicano. Il sisma distruttivo avvenne in epoche in cui non vi era la comunicazione odierna, tantomeno il meccanismo organizzativo di ausilio e di sostegno che si riscontra oggi in determinate circostanze. Ciò non fece altro che aumentare la sofferenza, e lo sgomento per una città che comunque è rifiorita. Riportiamo l’editoriale del collega Francesco Proia di MarsicaLive: “Il 13 gennaio del 1915 verrà sempre ricordato con dolore dai marsicani: quel terribile terremoto, con i suoi undici gradi della scala Mercalli, in pochi secondi spense le vite di trentamila persone. Quelli che stiamo vivendo sono indubbiamente tempi difficili, ma proviamo per un secondo a metterci nei panni dei nostri bisnonni: solo pochi anni prima, orfani di un lago ormai sparito, dall’oggi al domani si dovettero reinventare contadini e abbandonare un mestiere che praticavano da migliaia di anni. In seguito, subito dopo il terremoto, l’Italia è entrata nella “grande guerra” e i già scarsi fondi destinati alle zone terremotate vennero congelati per cinque anni. Come se non bastasse la nazione ebbe il coraggio di chiederci gli ultimi uomini rimasti per mandarli a morire al fronte. A quelli che chiesero un’eccezione venne risposto che quel disastro, nonostante si era posizionato nella seconda posizione di sempre tra le sciagure che colpirono la nostra penisola, non poteva essere classificato “tale che possa avere una qualsiasi importanza nella vita nazionale”. Senza contare che da lì a pochi anni ci sarebbe stata la terribile crisi del ’29 da cui si uscì solo per entrare in un nuovo e terribile conflitto mondiale. Mezzo secolo di sofferenze ininterrotte, un’identità storica completamente cancellata, eppure i nostri bisnonni ebbero la forza di andare avanti.
Uno dei termini più usati (e abusati) degli ultimi anni, è senza dubbio la parola “resilienza”. In meccanica identifica la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. Ma è la definizione psicologica quella che calza a pennello ai nostri avi: la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. I nostri antenati sono sempre stati dipinti come un popolo di fieri combattenti che non si piegò nemmeno davanti alle minacce del più grande impero della storia. Ma cosa si può contro una calamità di quelle proporzioni? Quando la natura fa la voce grossa, qualsiasi opposizione è inutile, oltre che impossibile.
Silone, nel suo capolavoro “uscita di sicurezza”, scriveva:
“Nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa trentamila persone. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso. Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie”.
Questo atteggiamento, però, sembrerebbe cozzare contro l’indomito carattere dei nostri antenati. E invece no, è proprio qui che i Marsi sfoderarono la loro resilienza e dimostrarono di sapersi adattare persino a quelle terribili circostanze. A cosa serve, d’altronde, combattere contro un nemico che non fa alcuna distinzione e che non puoi sconfiggere? Ecco quindi che i nostri bisnonni, rassegnati ma mai domi, si rimboccarono le maniche e iniziarono la ricostruzione della Marsica a partire da Avezzano, la nuova “caput marsorum”. Facendo appello a quella fierezza che da sempre contraddistingue il popolo Marso, seppero trasformare quel dolore in rinascita e, senza commiserazione, si rialzarono e ripresero il cammino di una ricostruzione in mezzo alle difficili sfide che la storia da lì a pochi anni gli avrebbe presentato. Il 31 gennaio, a pochissimi giorni dal sisma, una nuova stazione ferroviaria venne costruita e messa in funzione di fianco a quella distrutta dal terremoto. Contemporaneamente, con materiali di fortuna donati dal comune di Roma, venne ricostruito anche il nuovo municipio. Avezzano divenne la nuova sede della Diocesi e uno dei primi edifici della città ad essere edificato fu proprio il nuovo seminario, cui seguì la basilica di San Giuseppe, la prima chiesa ad essere ricostruita dopo il sisma. Il 16 giugno del 1915 Sebastiano Bultrini ebbe la responsabilità di redigere il nuovo piano regolatore, che segnerà per sempre il volto della “nuova” Avezzano e nel 1917, a cento anni esatti da oggi, venne inaugurato il nuovo mattatoio, un edificio che all’epoca rappresentava un importante simbolo per il benessere della città.
Oggi, a più di cento anni da quella sciagura, il nostro dovere è sicuramente quello di commemorare le migliaia di vittime che morirono durante quel terribile sisma, ma ancor più quello di prendere esempio e rendere omaggio ai nostri nonni e bisnonni che, grazie alla loro tenacia, riuscirono a superare mezzo secolo di difficoltà e a far rinascere la nostra terra ancora più forte di prima.”