Redazione cultura – Uno dei filosofi di maggiore spicco dell’epoca ottocentesca fu il tedesco Ludwig Andreas Feuerbach è tra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra hegeliana, e il fondatore dell’ateismo ottocentesco. Attuale e significativo è il titolo di una famosa opera del 1862: Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia; l’obiettivo di Feuerbach è quello di sostenere un materialismo radicale e anti-idealistico. A tal punto da portarlo a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò che ingeriamo… frase e concetto che viene utilizzata anche nei tempi moderni, spesso però senza saperne la provenienza. Nella sua affermazione risuonano richiami etico-politici. Feuerbach insiste sulla necessità di risolvere gli urgenti problemi dell’epoca concernenti la sussistenza umana, invece di appagarsi di una cultura meramente speculativa: «La fame e la sete abbattono non solo il vigore fisico ma anche quello spirituale e morale dell’uomo, lo privano della sua umanità, della sua intelligenza e della conoscenza». L’idea che lo guida è chiara. Se si vogliono migliorare le condizioni spirituali di un popolo, bisogna anzitutto migliorarne le condizioni materiali. Dato che esiste, per il filosofo, un’unità inscindibile fra psiche e corpo, ne consegue che per pensare meglio dobbiamo alimentarci meglio:
“La teoria degli alimenti è di grande importanza etica e politica. I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello; in materia di pensieri e sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. Se volete far migliorare il popolo, in luogo di declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore. L’uomo è ciò che mangia”.
La sua è una forte critica alla concezione idealistico-religiosa poiché offre una visione rovesciata delle cose. Applicando la sua metodologia materialista alla religione, Feuerbach arriva ad affermare che non è Dio (l’astratto) ad aver creato l’uomo (il concreto), ma viceversa, è l’uomo ad aver creato Dio. Infatti, Dio secondo Feuerbach, è solo una proiezione illusoria di qualità umane. Feuerbach studia ora le modalità dell’origine dell’idea di Dio nell’uomo:
1- l’uomo ha coscienza di sé non solo come individuo, ma anche come specie. Ora mentre l’individuo da solo si sente debole e limitato, come specie si sente infinito ed onnipotente: da ciò la figura di Dio;
2- l’opposizione umana tra volere e potere: tale opposizione porta l’individuo a costruirsi una divinità in cui tutti i suoi desideri appaiono realizzati;
3- il sentimento di dipendenza che l’uomo prova nei confronti della natura: tale sentimento spinge l’uomo ad adorare quelle cose senza le quali egli non potrebbe esistere. Dall’amore per Dio, all’amore per l’uomo. Secondo Feuerbach, a prescindere dall’origine della religione, questa costituisce comunque una forma di alienazione, intendendo con tale termine quello stato patologico secondo cui l’uomo scindendosi proietta fuori di sé una potenza superiore alla quale egli si sottomette. Ma se la religione si configura come un’”oggettivazione” alienata ed alienante, l’ateismo non solo è un atto di onestà filosofica, ma anche un vero e proprio dovere morale. Infatti Feuerbach afferma che è arrivata l’ora che l’uomo recuperi in sé i predicati positivi che ha proiettato fuori di sé, in Dio. Di conseguenza il compito della vera filosofia non è più quello di porre il finito nell’infinito, bensì di porre l’infinito nel finito.
Una delle opere che ancora oggi suscita riflessioni intense sul ruolo della vita è Pensieri su morte e immortalità che venne pubblicato anonimo, nel 1830, a cura di “uno dei suoi amici”. Sembra non si trattasse di unescamotage, allora normale, per evitare conseguenze negative all’autore. Più tardi, infatti, Feuerbach in un lettera privata avvertì per l’appunto il proprio corrispondente che quel testo era stato pubblicato da altri e non da lui, arrivando a dire che, nella forma da esso ricevuta nella stampa, non poteva riconoscerlo come suo, in quanto era stato deformato non solo “dai soliti errori di uno scrittore giovane, ma anche per soprammercato da aggiunte estranee”. Il curatore vi aveva curiosamente aggiunto una decina di suoi epigrammi senza indicarne la diversa paternità e inoltre aveva dato alla materia una disposizione priva di logica.
Al momento di questa sua prima pubblicazione forzata Feuerbach, ventiseienne (essendo nato a Landshut in Baviera nel 1804), era un “docente privato” dell’Università di Erlangen, dove un paio d’anni prima aveva ricevuto la laurea in filosofia e anche l’abilitazione all’insegnamento. L’uscita dei Pensieri tuttavia troncò, per il giovane intellettuale, ogni speranza di intraprendere una vera e propria carriera accademica. Egli, negando spasmodicamente di essere l’autore di quel libro, tentò varie volte per alcuni anni di ottenere accesso all’università, ma glielo impedì sempre lo scandalo suscitato dal libro con i suoi ragionamenti e i suoi epigrammi.
E lo scandalo era stato grande, tanto che venne immediatamente sequestrato in tutto il Regno di Baviera. Oltre all’avversione degli ambienti intellettuali cittadini nei suoi confronti, aveva agito contro il libro la tensione politica indotta anche in Germania, sebbene indirettamente, dai moti parigini del luglio 1830.
D’altronde era più che ovvia tale reazione da parte di una cittadina di circa diecimila abitanti, con una piccola università di circa duecento studenti, lasciata in piedi – dopo l’annessione della Franconia al cattolico Regno di Baviera – comeenclaveprotestante allo specifico scopo di formare i quadri intellettuali, i pastori, della minoranza luterana. Un ambiente ristretto dunque, e per di più isterilito dalle beghe fra pietisti e razionalisti, un ambiente palesemente poco adatto allo spirito innovatore con cui Feuerbach, dopo aver seguito a Berlino per un biennio le lezioni di Hegel, vi era approdato nel 1826, costretto a tale scelta culturalmente mediocre dal rifiuto di finanziargli gli studi, oppostogli dal padre. Il padre, Paul Johann Anselm von Feuerbach, importante magistrato (fu presidente di corte d’appello) del Regno di Baviera, aveva battezzato con il rito cattolico il figlio Ludwig, ma fornendogli poi una educazione rigorosamente luterana, tanto che questi, verso i 15 anni, aveva deciso di diventare teologo. Ludwig in effetti nel 1823, a 19 anni, aveva intrapreso gli studi di teologia a Heidelberg, trasferendosi quindi nel 1824 a Berlino, dove però aveva cambiato orientamento nel 1825, decidendo di laurearsi in filosofia. Il padre aveva reagito lasciandolo libero di seguire quella via, ma a proprie spese.
Ecco quindi che egli si laurea nel 1828 a Erlangen con una tesi d’ispirazione hegeliana, intitolata De infinitate, unitate atque communitate rationis (Dell’infinità, unità nonché generalità della ragione), che pochi mesi dopo, risistemata ai nuovi fini e col titolo cambiato in De ratione, una, universali, infinita (Della ragione, una, universale, infinita), usa come dissertazione di dottorato per acquisire, come abbiamo già detto, la libera docenza.
Questa dissertazione viene da lui inviata il 22 novembre 1828 a Hegel con una lettera (che non riceverà risposta) nella quale sostiene che occorre distruggere “il modo in cui fino ad oggi le concezioni del mondo hanno visto il tempo, la morte, l’aldiquà, l’aldilà, l’io, l’individuo… Dio ecc.“. Un proposito evidentemente incompatibile con le idee dominanti all’Università di Erlangen, ma che ispira un po’ tutti i Pensieri su morte e immortalità, dove tra l’altro troviamo sottolineato che occorreva “superare il vecchio dissidio fra aldiquà e aldilà, affinché l’umanità si concentri con tutta l’anima, con tutto il cuore su se stessa, sul suo mondo e sul suo presente“. Somiglianze d’impostazione e affinità tematiche che hanno indotto taluni studiosi a datare la stesura dei Pensieri nello stesso pe-riodo in cui Feuerbach lavorava alla tesi.
Il punto appare rilevante, ai nostri fini, perché ci darebbe un avvio di spiegazione per il tono irriverente, talora ridanciano, insomma qua e là addirittura goliardico, che si riscontra nella parte in versi dell’opera. Non soltanto in talune punte altrimenti incomprensibili dei Versi sulla morte che qui pubblichiamo, ma più diffusamente negli epigrammi, che non del tutto a torto verranno giudicati da un critico, nel 1910, per la maggior parte “distici non buoni“, infarciti di “versicoli triviali che, in attacchi smodatamente spavaldi, talora persino volgari, hanno fatto quanto era umanamente possibile contro il cristianesimo, il pietismo, il razionalismo“, palesemente in polemica con la situazione di Erlangen.
Ho voglia di andarmene da questa vita terrena,
Per approdare devotamente nel nulla.
La vecchia favola insegna è vero
Che arriverei alla schiera degli angeli;
Ma a questo credono solo i teologi.
Che da tempo sulla verità si sono ingannati.’
Il mio magro essere-sempre-lo-stesso,
è questo che imputridisce dentro la cassa da morto,
Qui ha termine l’identitas,
La morte non è un vuoto divertimento;
La natura non recita la parte di Eulenspiegel,
Vera morte essa reca nel sigillo,
Divora se stesso l’essere
E si include nel nulla:
L’essere non si lascia scindere,
Perciò solo il nulla può curarlo.
lo sono solo Io, soltanto una natura.
Un essere, una luce, un solo tutto,
Solo un uno io sono, un centro,
E ben levigato tutt’intorno.
Dal mio essere non mi distacco,
Niente posso togliervi, niente aggiungervi.
Dolori, gioie, piacere e affanno,
Peccati, colpa e pena e tormento,
Tutto questo è una sola unità,
Essenza stessa, essere ed egoità.
(…)
E se anche fosse la favola vera
E ci fosse una schiera di angeli,
Preferirei stare con il mio dolore
Piuttosto che con gli angeli nello splendore del cielo…