La testimonianza di una sopravvissuta al feroce massacro di Khojaly in Azerbaigian avvenuto nella notte tra il 25 e 26 Febbraio del 1992. Questa è la storia di Durdane Agayeva una delle donne testimoni del campo di tortura di Khojaly.
“Spesso ricordiamo l’Olocausto, e i genocidi in Bosnia, Cambogia,
Ruanda e purtroppo in molti altri posti. Ricordiamo i volti delle
vittime e storie così orribili che solo ascoltarle fa star male. In
questo contesto, ci sono tragedie che sono meno conosciute. Crimini
contro l’umanità così orribili che molti potrebbero pensare che non
sia possibile che siano avvenuti nella storia recente. Ebbene, io sono
una sopravvissuta di una tragedia simile – il massacro di Khojaly del
1992, ed una delle donne vive testimoni del campo di tortura di
Khojaly.
Come donna e come musulmana, è estremamente doloroso conciliare
l’orribile trauma di Khojaly con la mia fede e cultura tradizionale, e
la mia vergogna per aver sofferto violazioni della mia identità più
profonda.
Come sopravvissuta alla tortura, ho trascorso anni in isolamento a
casa, guardando film sull’Olocausto, le uniche lenti in grado di
catturare qualcosa connesso alla mia esperienza. Ho passato notti
insonni cercando di placare il mio panico attraverso la visione di
Schindler’s List e di Il Pianista.
La vita in quel mondo solitario con film e incubi, è stata quasi così
tragica come le ragioni per le quali ero lì. La mia esistenza era
appesa da qualche parte, in bilico tra un totale isolamento insieme
alla pesantezza degli importanti interventi operatori in corso per
curare il mio corpo dalla brutalità della tortura e dall’impatto
dell’esposizione durante la mia prigionia – procedure come impianti
spinali di titanio, che con il dolore che comportavano ricordavano in
ogni secondo le sue cause.
Io vengo dalla città di Khojaly, nel Nagorno Karabakh, una regione
dell’Azerbaigian all’epoca fiorente e promettente per la mia giovane
generazione. All’inizio del 1990, tutto ciò è improvvisamente
cambiato. La maggior parte del mondo non conosce il nome di Khojaly, e
non sa che l’Armenia ha perpetrato uno dei più brutali massacri della
storia recente contro la popolazione azerbaigiana terrificata e in
fuga. La notte (25-26 febbraio 1992) in cui è iniziato il massacro,
sono fuggita per salvarmi con mio fratello, dentro boschi gelidi, e
sono stata catturata e condotta in un campo di tortura. Avevo solo 20
anni….
Con cupa ironia, comprendo perchè l’Armenia ancora neghi che il massacro
di Khojaly sia avvenuto. Lo capisco perchè io non potrò mai rimuovere
l’immagine di un bambino di due anni a cui hanno sparato mentre
fuggiva con i genitori, il corpo schizzato di sangue sospeso nella mia
memoria. Come è possibile affrontare la distruzione di centinaia di
vite innocenti, i colpi su donne in attesa di bambini e anziani, i
proiettili fatali su bambini in fuga, la vista di madri con tra le
braccia figli senza vita? Come vittima, affrontare il mio passato mi
ha quasi ucciso, così posso comprendere che come autori il negare deve
essere di tangibile conforto.
Come musulmana, c’è un dolore certo e inspiegabile che provo nello
spiegare in pubblico che sono stata oggetto di tortura brutale e
umiliazioni, incluso lo stupro, per molti giorni durante la prigionia
armena. Condividere ciò è stata per la mia anima una tragedia,
distinta dalle crudeltà che il mio corpo ha sofferto. Ma io comprendo
che attraverso la condivisione, posso sopravvivere alle ombre della
vergogna e passare alla luce della mia guarigione personale.
Negli ultimi anni, la mia vita è cambiata drammaticamente. Con
l’immenso supporto della mia famiglia e della comunità, ho iniziato il
processo di condivisione. Le parti più profonde del mio passato sono
divenute pubbliche e documentate. Ho iniziato a registrare l’incubo a
cui sono sopravvissuta. Fino al febbraio 2015, non avevo mai visitato
un paese occidentale. Il mio primo giorno in California, ho incontrato
il leader di una comunità ebraica coinvolto nell’impegno per la pace
globale, e abbiamo partecipato ad un’intervista radio con uno
psicologo ebreo-iraniano e un ospite del talk show – specialista di
sopravvissuti a traumi intensi e Olocausto. Attraverso la connessione
della mia storia con una psicologa – mia nuova amica – lei stessa una
sopravvissuta all’Olocausto di terza generazione, ho provato un grande
senso di comprensione con cui non avevo ancora fatto esperienza prima
di quel giorno. Questo sentimento è aumentato quando ho saputo di un
memoriale di Khojaly in una sinagoga di Los Angeles, una settimana
dopo la mia visita.
Il parallelismo della comunità ebraica tra Khojaly e l’Olocausto è
stato di enorme importanza per la mia abilità di condivisione e
guarigione.
Il genocidio di Khojaly emerge come esempio delle più basse
manifestazioni della depravazione umana.
Attraverso il potere della mia guarigione, sono profondamente motivata
ad aiutare altre donne ad affrontare le loro storie di sopravvivenza,
e, facendo ciò, a sradicare la vergogna e la solitudine che segue la
tortura e il trauma.
Io prima pensavo che non avrei mai potuto condividere quanto avvenuto,
ma ora so che con la condivisione sono parte di un più ampio movimento
per guarire non solo me stessa, ma tutto il mondo.
La mia speranza più sincera è di ispirare altri sopravvissuti, da
tutto il mondo, che hanno avuto i paradigmi della loro innocenza
spazzati via dai tragici cannoni dell’odio e dell’oppressione, e
riunirci in un legame unico, rafforzando l’un l’altro e il mondo.
Non solo i sopravvissuti alla tortura e al genocidio, ma anche le
donne che vengono da nazioni in cui non hanno mai fatto esperienza di
moderne guerre, perchè molte donne convivono con il trauma della
violenza, alcune nelle loro stesse case.
Credo fermamente che attraverso un crescente impegno alla
familiarizzazione con la sofferenza altrui, questo mondo diventerà un
diverso tipo di posto, che mai possa permettere che il dolore e la
grande sofferenza del genocidio o di qualsiasi altro tipo di violenza
accada ancora, a chiunque, ovunque”.
Durdane Agayeva